Biografia

Mi ero ben accorto, per esempio, dell’esigenza necessaria di conoscere le radici dell’impianto storico-scientifico della patologia e di esplorare pertanto i processi attraverso i quali i medici fin dai tempi più remoti erano andati interpretando il concetto di malattia, di infiammazione, di tumore, di febbre e via dicendo. Fu questa vigorosa aspirazione a suggerirmi di incontrare la Storia della Medicina attraverso quelle modalità di ricerca indispensabili per la realizzazione di un siffatto programma. Presi, ad esempio, durante le vacanze estive lezioni di paleografia dal professore Marino de Szombathely, che si aggiungevano a quelle ascoltate dal professore Troilo, che costituivano almeno una parte del patrimonio necessario per avviarsi alla storia della medicina secondo quei canoni, che gli studiosi tedeschi definiscono Einführung in die Medizin e Einführung in die Medizinhistorik, temi sui quali dal mio illustre amico e per certo verso maestro, Walter Artelt, purtroppo scomparso precocemente e che avevo conosciuto in anni successivi, avevo acquisito.
A questo punto gradirei sottolineare due ricordi: l’iscrizione agognata alla celebre Facoltà di medicina dell’Ateneo dei Veneti e la mia uscita dall’insegnamento.
Era il 1936. Non era ancora scoppiata la seconda guerra mondiale. Una giornata autunnale: il cielo era terso, non vi era traccia di quella nebbia che, pur se talvolta cosparsa di qualche romantica venatura, può destare fastidiosi e melanconici sentimenti. Provenivo da Trieste dopo un corso di studi piuttosto pesanti con insegnanti assai efficienti. Avevo già inviato tutta la documentazione necessaria per l’iscrizione al bidello del Rettorato, Emilio Lipomano, un uomo investito da una certa autorità, solennemente seduto dietro a un modesto tavolino al primo piano del vecchio Bo’. Un paio di baffi neri gli ornava il volto, mentre due occhi penetranti ti scrutavano con furberia e una certa diffidenza, adusato com’egli era alle goliardiche monellerie.
Mi presentai e non senza un briciolo d’ansia gli chiesi se aveva ricevuto la documentazione, che gli avevo inviato, e provveduto alla mia iscrizione. Con tono contegnoso e misurato e secche parole mi rispose che tutto era a posto. Ero seduto dinanzi a lui su una seggiola un po’ traballante: gli espressi la mia gratitudine, mi alzai, mi avvicinai a lui e, non senza una nuance di timidezza, gli porsi nel cavo della mano destra una moneta argentea da 20 lire.
Lipomano si alzò e gentilmente mi accompagnò alla porta e mi salutò con queste parole: <<Dottore, grazie e sarò sempre a sua disposizione>>. Accolsi quelle parole come un augurio e trassi tosto l’impressione di essermi trovato dinanzi a uno dei personaggi del Ruzzante. Da quel momento si aprì una sorta di amicizia con quest’uomo, che durò per qualche decennio accettando io pure da lui qualche invito a colazione.
Giunto a settant’anni, tenni l’ultima lezione, che sarebbe dovuta essere solenne, ma che le più moderne consuetudini post-’68 avevano dissipato. Tuttavia, entrato nell’aula del nostro Istituto, mi accorsi della presenza di qualche gentile collega, di due giovani e valorosi docenti, già miei devoti discepoli e del consueto e affezionato uditorio studentesco, costituito da elementi studiosi, impregnati da interessi storico-critici ed epistemologici e grati per la mia apertura intellettuale nello svolgimento delle svariate problematiche, che l’indirizzo storico ci prospettava.
Conclusi la lezione e con tono sommesso aggiunsi: “E’ stata questa la mia ultima lezione ufficiale; ai giovani auguro una carriera prospera, confortata dai luminosi richiami e dalle positive riflessioni emergenti dalla cultura storica.